Una forza e una alleanza che sarebbe potenzialmente in grado (ecco il punto su cui richiamo l’attenzione) di giocare la grande partita che si è aperta non solo in Italia ma in Europa e nel mondo in conseguenza della crisi di quella che è stata dopotutto la destra vera: la oligarchia finanziaria che ha finora guidato la mondializzazione. Di che cosa parlo? Parlo di quello che leggo non sull’Unità ma sul Financial Times secondo il quale (cito) «La crisi dei crediti facili ha focalizzato l’attenzione sulle oscene iniquità di questa epoca: i 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio quasi due volte superiore a quello dei 2,5 miliardi più poveri. È il ritorno al Medio Evo. Già si vedono i segnali di una rabbia aperta montante nei confronti di questa situazione come abbiamo visto con l’attacco lanciato dal presidente tedesco Horst Kohler al mondo dei mercati finanziari definiti un mostro che deve essere domato». Fine della citazione.
In più lo stesso giornale ci informa che ormai a tal punto il centro di gravità della finanza globale si sta spostando fuori dal vecchio Occidente che i “fondi sovrani”, cioè statali (altro che mercato) di Russia, Cina, Golfo Persico supereranno tra pochi anni i 15 mila miliardi di dollari. Saranno, cioè in grado di comprarsi l’industria europea. Ci rendiamo conto di quali paure si creano e di quali sconvolgimenti tutto ciò sta già provocando? Sono i destini anche personali degli italiani come degli europei che tornano in gioco dopo secoli. Noi non ce ne siamo accorti in tempo, questa è la verità. E tuttora non mi pare che siamo decisi a scendere su questo terreno. Allora non meravigliamoci troppo per certi voti. E non facciamoci nemmeno troppe illusioni sulle virtù dei centri studi. Solo la coscienza delle grandi iniquità genera il conflitto vero e solo i conflitti veri generano nuovi partiti e nuovi pensieri. Le grandi idee e le grandi intelligenze nascono dai grandi sconvolgimenti. Ed è questa la ragione per cui io penso che spetta ormai a una nuova generazione farsi avanti. Non sono un giovanilista, penso però che solo una nuova generazione può ridefinire l’agenda del Paese.
Rendiamoci conto che noi siamo di fronte a qualcosa che non è solo una alternanza di governi: l’On. Berlusconi al posto dell’On. Prodi. Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo. I sondaggisti ci dicono che almeno il 60 per cento degli italiani considerano superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito. Figurarsi se un vecchio antifascista non è allarmato. E io vedo benissimo anche i segni di degrado dell’etica pubblica. Ma, accidenti, io voglio vedere anche altro. Non c’è solo un vuoto di valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa. Altrimenti diventa difficile preparare la rivincita. Il punto è che le ragioni interne (che sono cruciali e su cui non torno) non sono più separabili da quelle internazionali. Se il governo dell’Unione è stato giudicato incapace (perché è inutile negarlo: è su questo che la gente ha votato e tanti dei nostri si sono astenuti) di governare questa concreta Italia, i suoi bisogni e le sue paure, le sue eccellenze e le sue miserie ciò è accaduto non tanto a causa di singoli errori. È il suo impasto, è quell’idea di politica, di difesa di vecchi assetti sociali, di concezione della funzione pubblica che non funzionavano più a fronte di qualcosa che era anche più forte della demagogia populista di Berlusconi. Erano messi in discussione da ciò che stava succedendo nel mondo.
Che cosa stava succedendo? Una cosa, in realtà senza precedenti. Qualcosa che, volendo semplificare molto, è il cambiamento (se non il rovesciamento) del modo come il processo di mondializzazione è stato diretto finora. Parlo di quel modello cosidetto neo-liberista (libera circolazione dei capitali, l’idea che i mercati si autoregolano, e in più il “signoraggio” del dollaro e la geopolitica dominata dalla potenza americana) in base al quale le oligarchie occidentali hanno fatto il bello e il cattivo tempo. E ci hanno perfino detto, attraverso il martellamento dei media, quale riformismo era giusto che noi praticassimo sull’esempio dell’Inghilterra. Questo, dunque, sta accadendo. L’Occidente si è accorto che non è più il padrone del mondo.
Naturalmente le cose sono molto più complesse ma un dato di realtà è certo: è che l’affermarsi di nuove potenze (dalla Cina al Brasile, all’Iran) insieme al fatto che interi popoli sono usciti dalla miseria e dall’autoconsumo, tutto ciò non solo ha rotto i vecchi giochi ma ha messo materialmente in crisi la vecchia distribuzione dei poteri, il vecchio controllo delle materie prime, dall’energia alle produzioni agricole e sta provocando nuovi spostamenti delle popolazioni. Altro che “rom”. Gli effetti sono già evidenti. Come si legge sula stampa americana e in qualche articolo su l’Unità sono soprattutto le classi medie e lavoratrici dell’Occidente ad essere colpite in termini di salari, insicurezze, pressioni competitive, perdita di status e di protezione sociale. Da qualche secolo succedeva il contrario (l’aristocrazia operaia di cui parlava Lenin).
Sono cose che ormai è difficile negare ma si continua a parlare come se la politica fosse un’altra cosa: l’eterna disputa tra gli addetti ai lavori. Tremonti sarà pure un poco di buono ma aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura e - mi permetto di aggiungere - su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva. Dunque, questa è la loro risposta. E la nostra? Non possiamo limitarci a correggere (giustamente) i decreti di Maroni. Se vogliamo rialzare la testa dobbiamo partire dall’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri. Ed è proprio partendo da questa stupida illusione di una destra stupidamente feroce che noi possiamo e dobbiamo elaborare una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Questo ruolo è grande così come è grande il rischio che corriamo se non ci decidiamo a diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di una apertura, di uno scambio tra pari, di cooperazione tra popoli. Domando: come può fare una cosa del genere una destra che è invece l’espressione di una rottura dell’unità nazionale, che è la sommatoria della Lega di Bossi, degli ex fascisti, del populismo berlusconiano e di un leghismo meridionale che copre il malaffare con la nostalgia per i Borboni? Così davvero finiamo ai margini. Concludo. Ho accennato solo a una delle grandi sfide che dovrebbe lanciare alla destra un partito che è uscito dai vecchi confini della sinistra novecentesca non per pentirsi del passato ma per affrontare i nuovi problemi del 2000. E quindi per piantare i piedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti. Conflitti diversi ma non meno drammatici del vecchio conflitto di classe.
Alfredo Reichlin
In più lo stesso giornale ci informa che ormai a tal punto il centro di gravità della finanza globale si sta spostando fuori dal vecchio Occidente che i “fondi sovrani”, cioè statali (altro che mercato) di Russia, Cina, Golfo Persico supereranno tra pochi anni i 15 mila miliardi di dollari. Saranno, cioè in grado di comprarsi l’industria europea. Ci rendiamo conto di quali paure si creano e di quali sconvolgimenti tutto ciò sta già provocando? Sono i destini anche personali degli italiani come degli europei che tornano in gioco dopo secoli. Noi non ce ne siamo accorti in tempo, questa è la verità. E tuttora non mi pare che siamo decisi a scendere su questo terreno. Allora non meravigliamoci troppo per certi voti. E non facciamoci nemmeno troppe illusioni sulle virtù dei centri studi. Solo la coscienza delle grandi iniquità genera il conflitto vero e solo i conflitti veri generano nuovi partiti e nuovi pensieri. Le grandi idee e le grandi intelligenze nascono dai grandi sconvolgimenti. Ed è questa la ragione per cui io penso che spetta ormai a una nuova generazione farsi avanti. Non sono un giovanilista, penso però che solo una nuova generazione può ridefinire l’agenda del Paese.
Rendiamoci conto che noi siamo di fronte a qualcosa che non è solo una alternanza di governi: l’On. Berlusconi al posto dell’On. Prodi. Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo. I sondaggisti ci dicono che almeno il 60 per cento degli italiani considerano superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito. Figurarsi se un vecchio antifascista non è allarmato. E io vedo benissimo anche i segni di degrado dell’etica pubblica. Ma, accidenti, io voglio vedere anche altro. Non c’è solo un vuoto di valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa. Altrimenti diventa difficile preparare la rivincita. Il punto è che le ragioni interne (che sono cruciali e su cui non torno) non sono più separabili da quelle internazionali. Se il governo dell’Unione è stato giudicato incapace (perché è inutile negarlo: è su questo che la gente ha votato e tanti dei nostri si sono astenuti) di governare questa concreta Italia, i suoi bisogni e le sue paure, le sue eccellenze e le sue miserie ciò è accaduto non tanto a causa di singoli errori. È il suo impasto, è quell’idea di politica, di difesa di vecchi assetti sociali, di concezione della funzione pubblica che non funzionavano più a fronte di qualcosa che era anche più forte della demagogia populista di Berlusconi. Erano messi in discussione da ciò che stava succedendo nel mondo.
Che cosa stava succedendo? Una cosa, in realtà senza precedenti. Qualcosa che, volendo semplificare molto, è il cambiamento (se non il rovesciamento) del modo come il processo di mondializzazione è stato diretto finora. Parlo di quel modello cosidetto neo-liberista (libera circolazione dei capitali, l’idea che i mercati si autoregolano, e in più il “signoraggio” del dollaro e la geopolitica dominata dalla potenza americana) in base al quale le oligarchie occidentali hanno fatto il bello e il cattivo tempo. E ci hanno perfino detto, attraverso il martellamento dei media, quale riformismo era giusto che noi praticassimo sull’esempio dell’Inghilterra. Questo, dunque, sta accadendo. L’Occidente si è accorto che non è più il padrone del mondo.
Naturalmente le cose sono molto più complesse ma un dato di realtà è certo: è che l’affermarsi di nuove potenze (dalla Cina al Brasile, all’Iran) insieme al fatto che interi popoli sono usciti dalla miseria e dall’autoconsumo, tutto ciò non solo ha rotto i vecchi giochi ma ha messo materialmente in crisi la vecchia distribuzione dei poteri, il vecchio controllo delle materie prime, dall’energia alle produzioni agricole e sta provocando nuovi spostamenti delle popolazioni. Altro che “rom”. Gli effetti sono già evidenti. Come si legge sula stampa americana e in qualche articolo su l’Unità sono soprattutto le classi medie e lavoratrici dell’Occidente ad essere colpite in termini di salari, insicurezze, pressioni competitive, perdita di status e di protezione sociale. Da qualche secolo succedeva il contrario (l’aristocrazia operaia di cui parlava Lenin).
Sono cose che ormai è difficile negare ma si continua a parlare come se la politica fosse un’altra cosa: l’eterna disputa tra gli addetti ai lavori. Tremonti sarà pure un poco di buono ma aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura e - mi permetto di aggiungere - su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva. Dunque, questa è la loro risposta. E la nostra? Non possiamo limitarci a correggere (giustamente) i decreti di Maroni. Se vogliamo rialzare la testa dobbiamo partire dall’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri. Ed è proprio partendo da questa stupida illusione di una destra stupidamente feroce che noi possiamo e dobbiamo elaborare una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Questo ruolo è grande così come è grande il rischio che corriamo se non ci decidiamo a diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di una apertura, di uno scambio tra pari, di cooperazione tra popoli. Domando: come può fare una cosa del genere una destra che è invece l’espressione di una rottura dell’unità nazionale, che è la sommatoria della Lega di Bossi, degli ex fascisti, del populismo berlusconiano e di un leghismo meridionale che copre il malaffare con la nostalgia per i Borboni? Così davvero finiamo ai margini. Concludo. Ho accennato solo a una delle grandi sfide che dovrebbe lanciare alla destra un partito che è uscito dai vecchi confini della sinistra novecentesca non per pentirsi del passato ma per affrontare i nuovi problemi del 2000. E quindi per piantare i piedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti. Conflitti diversi ma non meno drammatici del vecchio conflitto di classe.
Alfredo Reichlin
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