Un Partito contro il Medioevo

. venerdì 23 maggio 2008
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Una forza e una alleanza che sarebbe potenzialmente in grado (ecco il punto su cui richiamo l’attenzione) di giocare la grande partita che si è aperta non solo in Italia ma in Europa e nel mondo in conseguenza della crisi di quella che è stata dopotutto la destra vera: la oligarchia finanziaria che ha finora guidato la mondializzazione. Di che cosa parlo? Parlo di quello che leggo non sull’Unità ma sul Financial Times secondo il quale (cito) «La crisi dei crediti facili ha focalizzato l’attenzione sulle oscene iniquità di questa epoca: i 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio quasi due volte superiore a quello dei 2,5 miliardi più poveri. È il ritorno al Medio Evo. Già si vedono i segnali di una rabbia aperta montante nei confronti di questa situazione come abbiamo visto con l’attacco lanciato dal presidente tedesco Horst Kohler al mondo dei mercati finanziari definiti un mostro che deve essere domato». Fine della citazione.

In più lo stesso giornale ci informa che ormai a tal punto il centro di gravità della finanza globale si sta spostando fuori dal vecchio Occidente che i “fondi sovrani”, cioè statali (altro che mercato) di Russia, Cina, Golfo Persico supereranno tra pochi anni i 15 mila miliardi di dollari. Saranno, cioè in grado di comprarsi l’industria europea. Ci rendiamo conto di quali paure si creano e di quali sconvolgimenti tutto ciò sta già provocando? Sono i destini anche personali degli italiani come degli europei che tornano in gioco dopo secoli. Noi non ce ne siamo accorti in tempo, questa è la verità. E tuttora non mi pare che siamo decisi a scendere su questo terreno. Allora non meravigliamoci troppo per certi voti. E non facciamoci nemmeno troppe illusioni sulle virtù dei centri studi. Solo la coscienza delle grandi iniquità genera il conflitto vero e solo i conflitti veri generano nuovi partiti e nuovi pensieri. Le grandi idee e le grandi intelligenze nascono dai grandi sconvolgimenti. Ed è questa la ragione per cui io penso che spetta ormai a una nuova generazione farsi avanti. Non sono un giovanilista, penso però che solo una nuova generazione può ridefinire l’agenda del Paese.

Rendiamoci conto che noi siamo di fronte a qualcosa che non è solo una alternanza di governi: l’On. Berlusconi al posto dell’On. Prodi. Nulla è più come prima. Emerge una nuova destra nei confronti della quale è cambiato lo spirito del tempo. I sondaggisti ci dicono che almeno il 60 per cento degli italiani considerano superate molte delle vecchie barriere valoriali che la vecchia cultura repubblicana aveva definito. Figurarsi se un vecchio antifascista non è allarmato. E io vedo benissimo anche i segni di degrado dell’etica pubblica. Ma, accidenti, io voglio vedere anche altro. Non c’è solo un vuoto di valori. C’è la necessità di capire le ragioni reali, più profonde, della vittoria della destra, in Italia come in Europa. Altrimenti diventa difficile preparare la rivincita. Il punto è che le ragioni interne (che sono cruciali e su cui non torno) non sono più separabili da quelle internazionali. Se il governo dell’Unione è stato giudicato incapace (perché è inutile negarlo: è su questo che la gente ha votato e tanti dei nostri si sono astenuti) di governare questa concreta Italia, i suoi bisogni e le sue paure, le sue eccellenze e le sue miserie ciò è accaduto non tanto a causa di singoli errori. È il suo impasto, è quell’idea di politica, di difesa di vecchi assetti sociali, di concezione della funzione pubblica che non funzionavano più a fronte di qualcosa che era anche più forte della demagogia populista di Berlusconi. Erano messi in discussione da ciò che stava succedendo nel mondo.

Che cosa stava succedendo? Una cosa, in realtà senza precedenti. Qualcosa che, volendo semplificare molto, è il cambiamento (se non il rovesciamento) del modo come il processo di mondializzazione è stato diretto finora. Parlo di quel modello cosidetto neo-liberista (libera circolazione dei capitali, l’idea che i mercati si autoregolano, e in più il “signoraggio” del dollaro e la geopolitica dominata dalla potenza americana) in base al quale le oligarchie occidentali hanno fatto il bello e il cattivo tempo. E ci hanno perfino detto, attraverso il martellamento dei media, quale riformismo era giusto che noi praticassimo sull’esempio dell’Inghilterra. Questo, dunque, sta accadendo. L’Occidente si è accorto che non è più il padrone del mondo.

Naturalmente le cose sono molto più complesse ma un dato di realtà è certo: è che l’affermarsi di nuove potenze (dalla Cina al Brasile, all’Iran) insieme al fatto che interi popoli sono usciti dalla miseria e dall’autoconsumo, tutto ciò non solo ha rotto i vecchi giochi ma ha messo materialmente in crisi la vecchia distribuzione dei poteri, il vecchio controllo delle materie prime, dall’energia alle produzioni agricole e sta provocando nuovi spostamenti delle popolazioni. Altro che “rom”. Gli effetti sono già evidenti. Come si legge sula stampa americana e in qualche articolo su l’Unità sono soprattutto le classi medie e lavoratrici dell’Occidente ad essere colpite in termini di salari, insicurezze, pressioni competitive, perdita di status e di protezione sociale. Da qualche secolo succedeva il contrario (l’aristocrazia operaia di cui parlava Lenin).

Sono cose che ormai è difficile negare ma si continua a parlare come se la politica fosse un’altra cosa: l’eterna disputa tra gli addetti ai lavori. Tremonti sarà pure un poco di buono ma aveva capito prima di altri che questo enorme sommovimento, in assenza di altre risposte, avrebbe gonfiato le vele di una destra che fa leva sulla paura e - mi permetto di aggiungere - su un papato sempre meno ecumenico e sempre più sulla difensiva. Dunque, questa è la loro risposta. E la nostra? Non possiamo limitarci a correggere (giustamente) i decreti di Maroni. Se vogliamo rialzare la testa dobbiamo partire dall’estrema debolezza strategica di una destra che pensa di fermare la Cina, le emigrazioni, l’enorme crescita numerica delle popolazioni di colore con i carabinieri. Ed è proprio partendo da questa stupida illusione di una destra stupidamente feroce che noi possiamo e dobbiamo elaborare una nuova visione dell’Italia e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Questo ruolo è grande così come è grande il rischio che corriamo se non ci decidiamo a diventare quella piattaforma mediterranea che consentirebbe all’Europa di dare alla mondializzazione una prospettiva diversa, il senso di una apertura, di uno scambio tra pari, di cooperazione tra popoli. Domando: come può fare una cosa del genere una destra che è invece l’espressione di una rottura dell’unità nazionale, che è la sommatoria della Lega di Bossi, degli ex fascisti, del populismo berlusconiano e di un leghismo meridionale che copre il malaffare con la nostalgia per i Borboni? Così davvero finiamo ai margini. Concludo. Ho accennato solo a una delle grandi sfide che dovrebbe lanciare alla destra un partito che è uscito dai vecchi confini della sinistra novecentesca non per pentirsi del passato ma per affrontare i nuovi problemi del 2000. E quindi per piantare i piedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti. Conflitti diversi ma non meno drammatici del vecchio conflitto di classe.

Alfredo Reichlin

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Cesare Damiano a Novara

. mercoledì 21 maggio 2008
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Sabato 24 maggio 2008 a Novara

CESARE DAMIANO

Ore 10 c/o sede PD v. Tornielli 8 Novara
incontro con i giovani del Partito Democratico

Ore 13 c/o Buca di Bacco a Oleggio v. le Mazzini 4 (fronte materna zona stazione)
Pranzo con Amministratori Ovest Ticino (€ 25/30 circa)

Ore 17 l’ex ministro del lavoro presenterà il suo libro “Il lavoro interrotto"
alla Libreria Rizzoli di piazza Cesare Battisti a Novara



Due anni al ministero del lavoro, due anni ricchi di iniziative legislative che hanno profondamente cambiato lo scenario italiano. Dalla più nota riforma del TFR agli interventi per la sicurezza nei cantieri, il segno lasciato da Cesare Damiano nel diritto del lavoro non è certo di piccola portata.
Un lavoro importante, ma, purtroppo, interrotto dalla chiusura anticipata della legislatura. Di questo e di altri percorsi iniziati e non conclusi, l’ex ministro parla nel suo libro Il lavoro interrotto, edito da Rizzoli e uscito in queste settimane; l’incontro sarà introdotto da un breve saluto di Paola Turchelli, coordinatrice provinciale del Partito Democratico.

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Libera in ricordo di Peppino Impastato

. martedì 20 maggio 2008
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In occasione dei trent'anni dall'omicidio di Peppino Impastato, vittima della mafia, il coordinamento novarese dell'associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, organizza un incontro giovedì 22 maggio 2008 a Novara presso la Sala Borsa alle ore 21.00, con l'obiettivo di ricordare la vicenda di Peppino, ma, nello stesso tempo, di sottolineare come i nodi che essa ci pone, nel nostro Paese, non sono ancora sciolti: il rapporto mafie-politica, l'infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni locali, il rapporto mafie-informazione, i tempi processuali. Sono tutte questioni che vorremmo fossero raccontate solamente nei libri di storia, ma che, purtroppo, sono ancora attuali.



L'evento vuole rafforzare, ancora una volta, quel legame, tra memoria del passato e impegno nel presente, legame necessario affinché la lotta alle mafie diventi patrimonio culturale di tutta la società civile.

Libera.
Associazioni, nomi e numeri contro le mafie

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Io chiedo scusa

. lunedì 19 maggio 2008
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Cara signora,
ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quotidiani, una foto che La ritrae. Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine, una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l’altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie. Accanto a Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo.



Nel suo volto, signora, si legge un’espressione di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato. Sul retro di quel furgoncino male in arnese - reti da materasso a fare da sponda - una scritta: “ferrovecchi”.
Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco il suo popolo, le sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti.
Nel nostro Paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza. È un’esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno di sicurezza ce lo abbiamo tutti, è trasversale, appartiene a ogni essere umano, a ogni comunità, a ogni popolo. È il bisogno di sentirci rispettati, protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo. Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello che non era lecito, perché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo - essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene - doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere. Il segno della civiltà è anche quello di una giustizia che punisce il trasgressore non per vendicarsi ma per accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza.
Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando. Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate dall’insicurezza economica - che riguarda un numero sempre maggiore di persone - e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita migliore.
Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto. La reazione è allora di scacciare dalla nave quelli considerati “di troppo”, e pazienza se sono quasi sempre i più vulnerabili. La logica del capro espiatorio - alimentata anche da un uso irresponsabile di parole e immagini, da un’informazione a volte pronta a fomentare odi e paure - funziona così. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime.
Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La storia ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione del reato si può facilmente passare, se viene meno la giustizia e la razionalità, alla criminalizzazione del popolo, della condizione esistenziale, dell’idea: ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla loro pelle.
Lo ripeto, non si tratta di “giustificare” il crimine, ma di avere il coraggio di riconoscere che chi vive ai margini, senza opportunità, è più incline a commettere reati rispetto a chi invece è integrato. E di non dimenticare quelle forme molto diffuse d’illegalità che non suscitano uguale allarme sociale perché “depenalizzate” nelle coscienze di chi le pratica, frutto di un individualismo insofferente ormai a regole e limiti di sorta. Infine di fare attenzione a tutti gli interessi in gioco: la lotta al crimine, quando scivola nella demagogia e nella semplificazione, in certi territori può trovare sostenitori perfino in esponenti della criminalità organizzata, che distolgono così l’attenzione delle forze dell’ordine e continuano più indisturbati nei loro affari.
Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel “sociale”, nella politica, nella amministrazione delle città, si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni che con fatica e determinazione cercano di dimostrare che un’altra sicurezza è possibile. Che dove si costruisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute, per ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità, vogliono partecipare da cittadini alla vita comune.
La legalità, che è necessaria, deve fondarsi sulla prossimità e sulla giustizia sociale. Chiedere agli altri di rispettare una legge senza averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito di istituire un “reato d’immigrazione clandestina” nasce proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.
Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po’ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi creda - anche per essere stati figli e nipoti di migranti - continuano a nutrire.
La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo marito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto e più umano.

Don Luigi Ciotti
Presidente del «Gruppo Abele» e di «Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie»

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